“Don’t worry, be happy” cantava Bob Marley introducendo quella che sarebbe esplosa come la contro-cultura degli anni 70’: prima in Inghilterra poi in America e infine in tutto il mondo. Un inno al diritto di essere liberi e felici, di poter sciogliere le catene delle costrizioni, sfuggire agli obblighi e alle frustrazioni, abbandonando paure, ansie e ire.
Oggi questa concezione della vita ha preso sempre più piede nella nostra cultura ed “essere sempre felici e liberi di fare ciò che si vuole” si è lentamente trasformato nell’obiettivo della nostra esistenza. Non a caso “Una vita in vacanza” dello Stato Sociale, seconda al Festival di Sanremo 2018, viene osannata come la voce dei giovani, e non solo, espressione coraggiosa di una cultura scomoda ma attuale.
Ma è davvero così? È possibile vivere sempre felici? Vivere lontani da tutto ciò che ci può far soffrire? Purtroppo no. Non possiamo controllare tutto, sia dentro che al di fuori di noi. È impossibile fare in modo che ad esempio un pensiero indesiderato non ci venga in mente o che qualcosa di brutto non ci accada, può succedere, abbiamo solo un controllo relativo su ciò che ci accade.
Ad esempio possiamo cercare di scappare da un pensiero che non ci piace distraendoci, ma così facendo dimostriamo a noi stessi che quel pensiero ci spaventa e che siamo incapaci di affrontarlo e più pensiamo a come evitarlo più da soli lo rendiamo importante e presente nella nostra mente. L’azione stessa di provare a controllare la nostra mente ci rende chiaro nei fatti come non sia possibile e i nostri continui tentativi fallimentari ci faranno temere sempre più la naturale incontrollabilità del mondo psichico e fisico. Ingabbiati nel tentativo di controllarci ci troveremo perturbati da ogni libera espressione della nostra psiche e ci sentiremo sempre più impotenti.
Il solo modo per uscire da questo circolo vizioso è quello di accettare che i pensieri, le immagini mentali e le emozioni, anche quelle negative emergano. Possiamo solo accettare che la mente crea in continuazione e noi non possiamo farci nulla. I pensieri arrivano e se non cerchiamo di bloccarli, così come sono arrivati passano e vanno via. La coscienza è un flusso che non va inibito ma assecondato, poiché la vera sofferenza deriva dal fatto che cerchiamo di combattere contro qualcosa che non è un nemico, non è pericoloso, a meno che noi non lo consideriamo tale.
A questo punto ci si trova a dover fare i conti con l’eterogeneità del mondo sia fisico che psichico, con ciò che non ci piace e ciò che invece ci piace dentro e fuori di noi. Esistono elementi, dei “tasti”, che proprio non vogliamo toccare che consideriamo troppo pericolosi perché crediamo di non poterli sopportare.
Ma è davvero così? Cosa potrebbe accadere se accettassimo ciò che tanto ci spaventa?
Nel gergo comune talvolta si incontrano espressioni quali: “sono morto di vergogna, avrei voluto sotterrarmi”. Ma nella realtà dei fatti nessuno è mai morto di vergogna o di paura o di tristezza, chi usa queste espressioni al contrario è ancora ben vivo e vegeto e lo sappiamo proprio perché ce lo sta raccontando. Ancora una volta ci troviamo davanti ad un effetto paradossale: il semplice fatto di considerare qualcosa come doloroso lo rende tale ai nostri occhi e più proviamo a evitare un dolore più questo ci apparirà vicino e pericoloso.
Quando consideriamo qualcosa come intollerabile automaticamente saremo portati ad evitare quel contenuto il più possibile. Ciò ci rassicura nell’immediato, ma allo stesso tempo un altro sottile messaggio tra le righe arriva al nostro inconscio: “tu non sei in grado di affrontarlo”. In questo modo evitamento dopo evitamento contribuiamo a rafforzare in noi l’idea di un pericolo (interno o esterno che sia) e l’idea della nostra impotenza, fragilità e incapacità di affrontare le situazioni avverse. D’altronde è solo affrontando ciò che ci spaventa che possiamo scoprire le risorse che si annidano, talvolta nascoste, dentro di noi, ma come possiamo pensare di ritrovare queste risorse se non ci diamo una chance di affrontare una difficoltà e superarla?
Come diceva Robert Frost “il modo migliore per venirne fuori è sempre buttarsi dentro”. Per cui l’unico modo che abbiamo per capire che ciò che ci spaventa non è così pericoloso come crediamo è quello di affrontarlo e viverne le conseguenze, scoprendo che anche quando qualcosa ci appare spiacevole ciò non implica che sia insuperabile.
Possiamo chiederci a questo punto se sia davvero utile vivere senza alcun dolore, sempre e solo felici. Probabilmente no.
Ad esempio mettiamo il caso che per noi sia molto importante essere apprezzati socialmente e ciò che più vogliamo evitare è fare una figuraccia in pubblico. In questo caso se fossimo convinti che sia importante per stare bene non fare mai figuracce sposteremmo la nostra attenzione da ciò che vogliamo (essere apprezzati) a ciò che non vogliamo (essere derisi). Potremmo quindi essere portati a compiacere gli altri, ad avere dubbi sui nostri vestiti e temere di dire qualcosa di sbagliato.
Inizieremmo a comportarci in modo da evitare qualsiasi brutta figura, saremmo così concentrati sull’evitare ciò che non ci piace da impiegare in questa impresa tutte le nostre energie anziché impegnarci a fare in modo che gli altri ci apprezzino per quello che realmente siamo e che possiamo dare.
Quindi, i tentativi di controllare il mondo interno ed esterno ed evitare ciò che ci spaventa non fanno altro che peggiorare la situazione.
Inoltre ciò che è doloroso, come ciò che è piacevole, ha grande importanza e uno specifico valore nell’arco della nostra crescita personale.
Se sono triste per esempio vuol dire che sento di aver perso qualcosa di importante per me e la tristezza me lo segnala, me lo fa capire in modo molto chiaro. Le persone che mi vogliono bene coglieranno il mio essere triste e proveranno ad aiutarmi. La tristezza mi porterà a fermarmi un attimo, capire il motivo della mia sofferenza e mi indurrà a riflettere per provare a cambiare qualcosa, a impegnarmi per recuperare o a trarre insegnamento dall’errore. Evitando invece questo sentimento negativo chiuderemmo gli occhi sui nostri bisogni, eviteremmo la sofferenza sul momento, ma quando questa riemergerà non ne comprenderemo il perché, sentendoci comunque male senza però capirne il motivo e senza sapere cosa fare per risolvere il problema.
Ciò che viene sempre più ignorato nella società attuale è che il benessere non implica l’assenza di sofferenza, anzi, la sofferenza è parte della vita e al suo interno ricopre un ruolo fondamentale, tanto che la gioia e la felicità non avrebbero senso per noi se non si fossero sperimentati il dolore e la tristezza. L’idea secondo cui sarebbe auspicabile vivere senza problemi, in libertà, sempre felici andrebbe sostituita con una concezione secondo cui è desiderabile essere ragionevolmente felici, ma consci dell’inevitabile sofferenza insita nella vita, sperando che vada tutto bene, ma pronti ad affrontare le difficoltà quando queste si presentano. E’ quindi fondamentale abbandonare l’idea che sia possibile controllare tutto, che ciò che non ci piace sia pericoloso e che evitare i dolori serva a vivere nel benessere. Infatti gran parte delle problematiche psicologiche deriva dall’aspettativa irrealistica di vivere in uno stato di perenne serenità che si scontra violentemente con la realtà dei fatti in cui la sofferenza è presente. Considerato tutto ciò ci troviamo allora ad affrontare una scelta: avere la pretesa irrealizzabile che la sofferenza possa essere totalmente eliminata dalla nostra vita e scontrarci poi con la dolorosa realtà dei fatti oppure accettare che il dolore e le emozioni negative sono parte della vita, che hanno un significato che ci guida in ciò che è meglio per noi e che ci permettono di scoprire risorse di cui non pensavamo di essere in possesso.
Voi cosa scegliete?