Sarebbe bello poter strofinare una lampada e risolvere tutti i propri problemi ponendo semplicemente una richiesta al genio che vi abita all’interno, vero? Purtroppo che io sappia questa miracolosa lampada non è mai stata trovata, e quindi a meno che non viviamo in una favola Disney noi comuni mortali dovremo adattarci ad affrontare le sfide che ci si pongono di fronte senza ricorrere all’uso della magia.
A volte però i problemi si sommano gli uni agli altri, rischiando di farci sentire impotenti e demotivati nell’affrontarli. Esistono tuttavia tecniche specifiche di problem solving che possono aiutarci ad affrontare le difficoltà della vita con approcci efficaci in tempi brevi. In questo articolo vi parlerò del problem solving strategico di Giorgio Nardone: un modello di problem solving che permette di risolvere problemi apparentemente irrisolvibili, ricorrendo a stratagemmi che violano il buonsenso e che offrono possibilità prima inaccessibili poiché ingabbiate entro rigidi schemi.
Cosa non dobbiamo assolutamente fare quando vogliamo risolvere un problema? Due cose:
Partiamo da un piccolo presupposto: ognuno di noi costruisce la propria realtà. Siamo padroni e responsabili di ciò che ci accade. Questo perché ogni esperienza è condizionata dei nostri pensieri, del nostro stato d’animo e dell’atteggiamento che adottiamo in ogni momento.
Nel corso della nostra vita, a partire dall’infanzia, passando per l’adolescenze e poi l’età adulta, ognuno di noi tende a sviluppare un particolare modo di percepire la realtà, di attribuirle significato e di reagire ad essa di conseguenza. Queste modalità diventano poi abituali e costituiscono il nostro personale sistema percettivo-reattivo che influenza il nostro modo di vivere le esperienze ed interagire con il mondo.
Tutti noi però abbiamo anche la tendenza innata a proteggere questo “filtro” tramite cui viviamo le esperienze e interagiamo con il mondo, e lo facciamo tramite l’autoinganno: ovvero la tendenza che ognuno di noi ha ad avvicinare la realtà non tanto ai propri desideri, quanto piuttosto a quello che è il proprio modello consolidato di percezione e reazione della realtà stessa. Questo avviene sia per quanto riguarda percezioni gradevoli che per quanto riguarda percezioni sgradevoli.
Per esempio: immaginatevi due ragazze; chiameremo la prima Chiara e la seconda Arianna. Chiara è sempre stata molto insicura di sé, fragile, una persona che non si sente mai all’altezza della situazione. Arianna invece è una ragazza estroversa e sicura di sé. Ora immaginate che entrambe vadano ad una festa ed entrambe abbiano la sensazione di essere osservate dagli altri. A parità di sensazione ognuna di loro interpreterà la situazione in base ai suoi preconcetti! Perciò Chiara convincerà che tutti la stiano guardando perché è inadeguata, perché non dovrebbe essere lì, perché è ridicola. Mentre Arianna, forte della sua autostima si dirà: “mmm tutti mi guardano, oggi devo essere particolarmente carina, tutti mi ammirano!” Quindi appunto: partiamo dal nostro preconcetto, e cerchiamo nella realtà circostante segnali che lo confermino.
Questo atteggiamento rischia però di portarci ad un fenomeno psicologico molto pericoloso: la profezia auto-avverante. Essa si verifica nel momento in cui partendo da un nostro pregiudizio, cerchiamo nel mondo attorno a noi indizi che lo confermino ed agiamo di conseguenza ad esso.
Un altro esempio per comprendere questo concetto: fin da quando era ragazzo, Paolo ha sempre percepito gli altri come dei persecutori, è convinto che la maggior parte delle persone lo odino, ce l’abbiano con lui, vogliano fregarlo. Si sente una vittima degli altri e del mondo. Partendo da questo preconcetto, Paolo come agirà nel mondo? Probabilmente avrà un atteggiamento pessimistico, sospettoso e scontroso. Nella costante paura di essere attaccato sarà lui per primo a difendersi tramite l’aggressività. E mostrandosi agli altri sempre nervoso e arrabbiato (nella convinzione di essere costantemente giudicato) non potrà che ricevere dagli altri feedback negativi, allora le persone inizieranno ad evitarlo, ad essere a loro volta scontrose con lui e a guardarlo con sospetto.
Ciò che Paolo non sa è che fintanto che ha solo creduto che gli altri ce l’avessero con lui e non ha agito di conseguenza, ha avuto torto. Ma dal momento che ha creduto al suo pregiudizio e ha agito di conseguenza, allora ha avuto ragione: ha creato da sola la sua realtà, semplicemente perché l’ha provocata.
Nella maggior parte dei casi quindi, i problemi non derivano dalle situazioni oggettive in sé, ma derivano dai significati e dal valore che vi attribuiamo e di conseguenza dal modo in cui reagiamo ad esse. Se ci lasciamo guidare dai nostri preconcetti rischiamo di rimanere ingabbiati nella nostra visione delle cose, ci comportiamo di conseguenza e rischiamo di confermare il nostro pregiudizio dando vita ad una profezia auto-avverante.
“La ricerca dei colpevoli, ammesso che si trovino, fuorvia la ricerca delle soluzioni” G. Nardone
Il secondo “must not” del problem solving strategico riguarda la ricerca delle cause. Spesso ci lasciamo fuorviare dalla convinzione per cui per risolvere un problema dobbiamo assolutamente conoscerne le cause e partire da lì nella sua risoluzione. Tuttavia ricercare le cause dei nostri problemi rischia di diventare un circolo vizioso, in cui una volta identificata una causa si va a cercare la causa della causa e poi la causa della causa della causa in un moto perpetuo infinito che ci costringe a lavorare sul passato dimenticandoci del problema presente.
Attenzione, è fondamentale valorizzare il nostro passato, ma dobbiamo anche accettare che il passato è passato e in quanto tale non può più essere modificato. Per cambiare una situazione problematica quindi, risulta più utile lavorare su come il problema funziona e si mantiene nel presente e su quali strategie siano più adatte a creare un cambiamento efficace e duraturo.
La prima fase del problem solving strategico è quella di definire il problema e le sue caratteristiche nella maniera più descrittiva e concreta possibile:
Spesso anche gli uomini più intelligenti cercando di superare le loro difficoltà saltano questa fase dandola per scontata. Porsi le domande riportate qui sopra, sforzandosi inoltre di immaginare come gli altri possano percepire il problema ci permette di lasciare le nostre menti aperte a comprendere realmente il problema e la situazione evitando di rimanere vittima dei nostri preconcetti.
Una volta stabilito il problema, il passo successivo è quello di concordare l’obiettivo. Ciò permette di puntualizzare in maniera inequivocabile e concreta quale deve essere il focus dell’intervento, tenendo sotto controllo le possibili evoluzioni fuorvianti del processo di cambiamento.
Le tentate soluzioni sono tutti quei pensieri, atteggiamenti, comportamenti che abbiamo utilizzato nel tentativo di risolvere il problema. Spesso, sono proprio le nostre tentate soluzioni fallimentari che mantengono e alimentano il problema nel presente. Identificare le tentate soluzioni ti aiuta quindi a capire come funzioni il problema e ci permette inoltre di:
L’esempio di tentata soluzione fallimentare per eccellenza è l’evitamento. Sarà capitato a tutti noi di trovarci di fronte ad un problema che ci fa molta paura. Un’esame in università, un compito difficile al lavoro, affrontare una persona che ci incute timore. Generalmente di fronte a queste situazioni la nostra reazione spontanea è quella di cercare di evitarle: darci alla fuga. L’evitamento delle potenziali situazioni pericolose però ha un duplice effetto: se da una parte ci rassicura e ci permette di non affrontare una situazione per cui non ci sentiamo all’altezza, dall’altra conferma l’incapacità di affrontare e superare quelle difficoltà. Quindi ciò che inizialmente ci fa sentire rassicurati aumenta in realtà la nostra paura. E più lo eviti e più questo ti sembrerà grande e spaventoso e più tu ti sentirai piccolo e vulnerabile.
“Se volessi far peggiorare ulteriormente la situazione invece di migliorarla, come potrei fare?”
È controintuitivo vero? Risolvere un problema cercando invece tutti i modi per peggiorarlo. Questo stratagemma prende origine da un’antica saggezza cinese: “se vuoi raddrizzare una cosa, impara prima tutti i modi per torcerla di più”. Rilevando tutto ciò che può essere fallimentare in realtà creo immediatamente in me l’avversione verso tali possibili azioni. Inoltre quando ci sforziamo volontariamente di trovare una soluzione alternativa ad un problema, spesso la nostra mente tende a ricalcare sempre gli stessi itinerari mentali. Spostando il focus dal “come migliorare” al “come peggiorare” invece spostiamo l’effetto paradossale dello sforzo volontario permettendo alla nostra mente di andare per contrasto in cerca di soluzioni alternative.
«Immaginiamo che, una volta uscito di qui inizi a camminare e come per miracolo il problema si è risolto. Da cosa te ne accorgeresti? Quali sarebbero i fattori concreti che ti farebbero accorgere che la situazione è cambiata?»
L’obiettivo quindi è quello di convincere la nostra mente a immaginare quali sarebbero tutte le caratteristiche della situazione ideale, dopo aver realizzato il cambiamento strategico. Una volta identificato lo scenario ideale si selezionano gli aspetti realizzabili concretamente. Questo tecnica di problem solving aiuta anche a farci vedere quali sarebbero gli effetti collaterali indesiderati del successo del nostro progetto, che vanno gestiti in anticipo. Ciò ci permette a volte di vedere cose che rimarrebbero nascoste lavorando sulla realtà presente o passata.
Una volta identificato lo scenario oltre il problema, bisogna concentrarsi sul più piccolo ma concreto intervento da realizzare; questo sarà seguito dal secondo, e così via.
“Ogni viaggio di mille miglia comincia con un piccolo passo” Lao Tse
Facile. A volte però si fa fatica ad identificare quale deve essere questo primo piccolo passo. Vediamo il punto di partenza, vediamo il punto d’arrivo, ma quello che c’è nel mezzo spesso ci appare un astratto ed immaginario percorso pieno di insidie e difficoltà. Per aiutarci a comprendere quali passi dobbiamo fare c’è la tecnica dello scalatore.
La tecnica prende il nome da ciò che fanno le guide alpine esperte per progettare la scalata di una montagna. Invece che partire dalla base della montagna, nello studio del percorso da seguire prendono avvio dalla vetta e andando a ritroso tracciano la rotta e le tappe fino all’attacco.
Quindi a partire dall’obiettivo da raggiungere si immagina lo stadio appena precedente poi lo stadio precedente ancora e così via fino ad arrivare al punto di partenza. In questo modo il percorso viene suddiviso in una serie di stadi, si fraziona quindi l’obiettivo finale in una serie di micro-obiettivi. Una volta suddivise le tappe, si va al punto di partenza e si inizia con il primo piccolo passo fino ad arrivare alla vetta.
Iniziare dal passo più semplice ci salva dalle nostre eventuali incapacità nel realizzare grandi azioni e al tempo stesso riduce la resistenza al cambiamento del sistema sul quale si interviene.
A volte i problemi sono così complessi da richiedere più soluzioni. In questi casi non bisogna farsi prendere dalla fretta di risolvere tutto subito. Ognuno di questi step va svolto con calma e attenzione. Se la soluzione identificata non sembra funzionare va bene lo stesso, basta tornare indietro e svolgere nuovamente il processo; anzi ogni errore che commettiamo ci aiuta ancora di più a comprendere il problema, ci allontana dalla strada sbagliata indirizzandoci verso quella più corretta.
Nessun problema è troppo difficile per essere risolto, bisogna solo trovare la giusta soluzione. Le fasi del problem solving strategico di cui abbiamo parlato fino ad ora ti permettono di guardare al problema da una prospettiva diversa. Attraverso stratagemmi talvolta contro-intuitivi ti permettono di liberarti dagli autoinganni e dalle rigidità mentali che a volte ci impediscono di vedere la soluzione anche quando si trova proprio sotto al nostro naso. Ma mi raccomando, quando vi trovare ad affrontare un problema non concentratevi eccessivamente sulla soluzione ma concentratevi sul processo e sulle singole fasi del problem solving. Napoleone una volta disse: “siccome ho molta fretta, vado molto piano” perché la fretta ti porta ad arrivare a conclusioni talvolta errate che combaciano con il tuo personale preconcetto e con la tua modalità di guardare e percepire il mondo, ma spesso si discostano dalle reali caratteristiche del problema impedendoti di risolverlo.